Quando i fascisti entrarono in casa mio padre aveva già preparato la valigia. Le dita sottili avevano sfiorato il violino mentre le lacrime di mia madre bagnavano la sua camicia. I repubblichini frugarono ovunque nella casa, ribaltarono i materassi, aprirono i cassetti e, alla fine, lo portarono via. Non trovarono quello che cercavano perchè non si trovava lì. Quello che i fascisti di Salò volevano stava ormai dall’altra parte della frontiera, in Svizzera. Quello che cercavano eravamo noi.
Io e mio fratello Luciano avevamo viaggiato molto con i nostri genitori perchè mio padre era stato violinista in molte orchestre, soprattutto in Svizzera, ed eravamo tornati in Italia solo nel 1940, quando io avevo vent’anni e mio fratello ventidue. I nostri genitori ci amavano molto e, nonostante i tempi, a casa nostra si stava piuttosto bene. Poi l’armistizio e la Repubblica sociale, con le sue belve affamate che reclutavano con la forza i giovani strappandoli dalle cascine e dagli appartamenti.
Nel nome dell’amore che nostro padre provava per noi ci fece fuggire; ancora oggi non so come riuscì ad organizzare quel viaggio. Da Bergamo andammo a Como, poi in taxi fino al confine elvetico dove, con i contrabbandieri, raggiungemmo Campione d’Italia, enclave italiana in Svizzera. Qui trovammo finalmente rifugio a casa di alcuni vecchi amici.
Ma mio padre e mia madre non partirono, restarono lì, a Bergamo, e mio padre finì in prigione. Non lo posso immaginare lui, Tullio Daneri, nella cella di una prigione. Strideva nella mia mente l’immagine di quell’uomo elegante, in abito nero, con il suo violino stretto nella mano sinistra, con l’idea che avevo delle galere fasciste, squallide e cupe, con le torture atroci di cui tutti parlavano, con l’idea di brutalità e vendetta che il fascio si portava ormai appresso.
Nel frattempo ci rendemmo conto che a Campione nulla era cambiato da prima della guerra: niente armi, niente soldati e niente coprifuoco. Le persone vivevano cercando di non preoccuparsi, ripetendosi che tutta quella tempesta che sconvolgeva il mondo al di là dei confini svizzeri sarebbe passata. L’attesa era diventata una parte imprescindibile del modo di vivere lassù, il tempo sembrava immutabile, una cappa grigia di polvere e cemento che soffocava le ambizioni. Per noi, lontani da casa e a corto di notizie, una tortura insopportabile. Quando venimmo a sapere che, a Lugano, all’ambasciata americana tentavano di costituire una formazione di resistenza composta da rifugiati sbandati come noi, non avemmo dubbi. Avremmo avuto vitto e alloggio garantito, per quanto il cibo fosse scarso e i letti scomodi, ma soprattutto avremmo avuto una parte attiva in quello che succedeva, magari saremmo tornati a casa prima.
Nell’ottobre 1944 venimmo spediti in Val d’Ossola: niente più attesa, Bergamo era più vicina che mai, questo pensavo mentre la nostra barca salpava da Campione e ci portava a Lugano. Mi pareva di vedere già il tavolo della cucina, e mia madre che vi posava sopra l’arrosto della domenica mentre mio padre stava seduto e tagliava per noi le prime fette. Da Lugano la seconda tappa era Locarno, da lì ci aspettava Domodossola ma, durante l’ultima parte del tragitto, la polizia svizzera ci fermò: non avevamo armi ma nemmeno documenti. Allora la prigione, anche se per poco, per noi e gli altri. Chiedemmo di poter tornare a Campione, chè la sfortuna ce la sentivamo già addosso prima ancora di finire in guerra. Invece l’ intervento dell’ ambasciata americana obbligò la polizia a rimpatriarci.
Ed eccoci in Val d’Ossola. Venimmo destinati ad una brigata a caso, tra le tante: c’eran la brigata Garibaldi, la Matteotti, Val Torcia… gli uomini stavano ammucchiati nel grande campo, comunisti accanto ai cattolici, e l’attesa che si respirava non era più quella immobile e oziosa di Campione. Era un’attesa scheggiata dal nervosismo, ogni tanto increspata di terrore. Non c’erano molte armi; noi avevamo un fucile novantuno in due, io e Lucio. Era una mancanza spaventosa, ma gli americani temevano una rivolta delle brigate comuniste, perciò non davano armi né munizioni. Portavamo avanti azioni di guerriglia: alcune brigate con precisione e progettualità, altre, come la nostra, in maniera confusa e alle volte dispersiva.
A metà ottobre nazisti e fascisti scatenarono la controffensiva. Spazzarono via il campo. Allo sbando, dopo il primo scontro, tentammo di tornare in Svizzera, mentre i garibaldini abbandonavano il campo per tornare alla guerriglia montana. Io e mio fratello tentammo di tornare a Campione, ma quando la polizia svizzera ci prese capimmo che ci sarebbe spettato il campo di concentramento. Una notte tentammo la fuga, e fummo fortunati; volevamo tornare a Campione e grazie a un’associazione per l’accoglienza dei rifugiati di Mendrisio riuscimmo nell’intento. Di nuovo ci toccò l’attesa, che da quel momento fu per noi meglio della guerra, ma sol per cinque mesi; poi il 25 aprile e infine il ritorno.
Poi gli occhi di nostro padre, ancora, finalmente. Nostro padre che ci aveva organizzato la fuga da solo, pur di non farci diventare carne da mecello fascista; nostro padre che per noi si era fatto la prigione per amore e per il legame di quel sangue che ci legava da sempre. E quando lo rividi provai gratitudine, e ancora oggi sento quel debito forte con lui, che se dalla guerra non ho imparato molto, perchè molto non ho fatto, da lui ho imparato come si ama.
di Elisa Iscandri